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Rock Recensioni BRIAN WILSON - That Lucky Old Sun (Capitol 2008)
 

BRIAN WILSON - That Lucky Old Sun (Capitol 2008) Hot

Image Sinora That Lucky Old Sun ha ricevuto recensioni non troppo positive, forse perché da Brian Wilson ci si aspetta sempre chissà cosa. In realtà “the genius” ha smesso di essere tale 30 anni fa dopo il tardivo e occasionale colpo di coda di Beach Boys Love You. Qualche tempo fa l’uscita della sonica fenice Smile ha riportato il suo nome al centro dell’attenzione: disco bellissimo e magnificamente arrangiato, ma con materiale scritto negli anni ’60, nel magico-tragico momento d’incontro fra ispirazione e paranoia. Ciò detto, per apprezzare That Lucky Old Sun, oltre ad amare i Beach Boys, occorre essere cultori di ciò che è borderline, ciò che non è esattamente come appare (fra l’altro è difficile capire a che epoca risalga il materiale; a precisa domanda l’autore risponde “la musica non ha tempo” ). In questo caso, un lavoro che dovrebbe essere apoteosi, naturale e figurata, della solarità californiana contiene le sue belle ombre, come d’altronde c’era da aspettarsi da  chi è sprofondato in pozzi psichici profondi e ne è risalito pagando un prezzo non piccolo. Siamo dunque nell'ambito del disco a tema, con brani che a volte sfumano uno nell'altro, alcuni recitativi di raccordo (su testi del vecchio sodale Van Dyke Parks) e la title-track, datata 1947 e unica composizione non originale,  a fare da motivo ricorrente. La spensieratezza venata di affettuosa nostalgia dei primi momenti (Morning Beat, Good Kind Of Love, Forever She’ll Be My Surfer Girl) lascia a poco a poco il posto al riafforare dei momenti più difficili della vicenda umana di Wilson, raccontati con un candore impressionante: “Come ho potuto finire così in basso/ Mi imbarazza dirvelo/ Stavo sempre a letto/ Quasi non mi lavavo più la faccia”. Non a caso è da qui in avanti che la musica ritrova, almeno in parte, la fusione fra pop alla Beach Boys e musical alla Sondheim che rendeva grande Smile. Oxygen To The Brain descrive bene lo scatto che dal torpore mentale porta alla voglia di rinascita, così come Midnight’s Another Day spiega in modo struggente quanta fatica costi sconfiggere i fantasmi notturni.

Ancora migliori sono le due canzoni conclusive, Going Home, la più sixties di tutte, forse perché centrata sul momento del proprio fallout mentale (“A 25 anni ho spento la luce/ Perché i miei occhi non reggevano il luccichio”) e la ballata pianistica e autoterapeutica (un saluto anche al Dottor Landy?) Southern California: “Ho sognato che cantavo insieme ai miei fratelli/ Cantavamo in armonia aiutandoci l’un l’altro… Nella California del sud i sogni si svegliano per te/ E quando ti svegli qui, ti svegli dappertutto”. Tutto bene, dunque, e la vecchiaia si preannuncia serena, anche se, forse, gli incubi sono sempre in agguato. Basterebbe solo guardare la foto a metà libretto del cd per capire che c’è qualcosa che non quadra: Brian Wilson, in postura da neolobotomizzato su un terrazzo vuoto che osserva una Los Angeles colpita da una luce livida e perfettamente post-atomica. (Antonio Vivaldi)

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