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Dischi senza tempo Hot

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Disco Club nel 1974: dietro il banco, a destra, Giancarlo

  • AMON DÜÜL II: PHALLUS DEI
  • AUDIENCE: THE HOUSE ON THE HILL
  • TIM BUCKLEY: HAPPY SAD
  • CAN: TAGO MAGO (doppio)
  • EAST OF EDEN: SNAFU
  • PETER HAMMILL: CHAMELEON IN THE SHADOW OF THE NIGHT
  • (...)

Tutti i dischi di questa lista costano lire 4.200 se singoli, 8.000 se doppi, 12.000 se tripli…

Pop Records, Novembre1974


"Me li ricordo quei dischi… e l’odore di cartone delle copertine e le buste verde scuro con il nome del negozio. E Giancarlo che era uguale a ora, solo con più capelli. Mi sarei comprato tutto, ma a 14 anni e figlio di ferroviere… Avere avuto i soldi a quel tempo, oggi potremmo mandare a quel paese gli strozzini delle fiere”. “Già. Pensa a Gamberini che Peter Hammill lo mette 40 euro”.

Sin troppo prevedibile che il ritrovamento di alcune riviste musicali d’epoca producesse un effetto “macchina del tempo”. Mai pensiero si sarebbe rivelato più fatale. Il bar era quello accanto al negozio di dischi. Seduto al tavolo vicino, un uomo di età indefinibile, forse sulla settantina, forse più anziano, con occhiali rotondi e barba rada ascoltava con attenzione i nostri discorsi da musicofili.

“Vi prego di scusare l’intromissione,” disse con accento straniero, probabilmente dell’Europa orientale, “mi chiamo Leopold Blumenthal e se avrete la pazienza di ascoltarmi vi racconterò la mia storia.

“Nel 1943 avevo 14 anni e vivevo nel ghetto di Varsavia ormai accerchiato dai nazisti. Nella nostra strada mio padre era considerato un mago della meccanica e i vicini lo cercavano in continuazione. In cantina aveva una specie di laboratorio dove andava la sera e dove nessun altro poteva entrare. Io però avevo scoperto una piccola fessura fra due assi della porta e da lì lo spiavo armeggiare su un contenitore color oro grande abbastanza da contenere una persona. Sopra c’erano due piccole statue.

Più il ghetto si spopolava a causa delle morti per fame e malattie, più tempo mio padre passava in cantina. Anche lui era malato, una forma di asma congenita che, data la situazione, si aggravava giorno dopo giorno. La sera del 18 aprile del ‘43 qualcuno ci avvertì che nel giro di poche ore i nazisti avrebbero lanciato l’attacco finale al ghetto. Mio padre mi chiamò e mi disse di seguirlo in cantina. Nonostante la situazione terribile, riuscii a percepire nella sua voce una vibrazione quasi gioiosa. Mi disse: ‘Non c’è tempo da perdere, Leopold. Questa è la mia macchina del tempo. Ci può stare una sola persona e io, comunque vada, ho poco da vivere. Aiutami a trasferirla in giardino. Non è completa, ma dovrebbe riuscire a portarti via da questo tempo e da questo posto maledetti da Dio. Ti affido i disegni del progetto e una lettera per il rabbino capo di Varsavia. Quando non sentirai più vibrazioni, esci dalla macchina e vai alla sinagoga Nozyk, sperando ci sia ancora’.

Vedendola da vicino, capii a cosa somigliava la grande scatola. Era esattamente come il rabbino ci aveva descritto Aron Habrit, l’Arca dell’Alleanza in cui erano contenute le tavole dei dieci comandamenti. Le statue erano quelle dei due cherubini che secondo le Scritture stanno sul coperchio dell’Arca. Mio padre m’infilò quasi a forza nella scatola dorata. Dentro c’erano la sedia sparita misteriosamente dalla cucina sei mesi prima e poche manopole. Mio padre spostò una leva in avanti sino a far comparire la scritta 18 aprile 1950: ‘Non voglio mandarti troppo avanti nel tempo, potrebbe essere difficile per te. E poi spero che fra sette anni quest’orrore sarà finito’. Aveva gli occhi lucidi quando mi baciò e mi disse: ‘Buona fortuna, figlio mio. Potrebbero dire che questa seconda Arca è blasfema, ma è mille volte più blasfemo quello che sta accadendo intorno a noi. Addio’.

La macchina cominciò a vibrare e dopo un po’ di tempo fu di nuovo ferma e silenziosa. Quando uscii al posto del ghetto e delle vecchie case c’erano alti palazzi grigi e nessuna traccia di distruzione. Un passante mi disse che la sinagoga Nozyk c’era ancora e mi guardò come se gli avessi fatto una domanda stupida. Il rabbino lesse la lettera di mio padre e poi commentò: ‘Sembrerebbe il racconto di un pazzo se i pochi sopravvissuti del ghetto non mi avessero raccontato i prodigi meccanici di Isaac Blumenthal. Hai bisogno di aiuto, giovanotto, anche perché ora hai 21 anni e 14 anni insieme. Quanto alla macchina, meglio distruggerla. Potrebbe cadere in cattive mani’.

Non ho mai avuto un’esistenza normale. Come avrei potuto, d’altronde. Se sento parlare di qualcosa accaduto fra il 1943 e il 1950 provo una strana vertigine. Se qualcuno mi chiede l’età, non so cosa rispondere. Sento che manca una parte della mia vita. Sento che il mio tempo e quello del mondo non sono in sincronia. Sono arrivato in questa città anni orsono con l’idea d’imbarcarmi per l’America. Ma il mare mi sgomentava. Avevo oltrepassato il tempo, non riuscivo a superare lo spazio. Mi sono fermato qui. Con fatica ho ricostruito la macchina di mio padre. Avrei voluto ritornare indietro di sette anni, per riprendermi una parte di vita. Ma ora mi sento vecchio e non ne ho più il coraggio. E, come ha detto il rabbino, quella macchina è pericolosa. Però mi piacerebbe farla funzionare almeno una volta. Egregio signore, ho ascoltato le sue parole e ho intuito che la sua intenzione di tornare indietro nel tempo è semplice e pura. Non vorrebbe sperimentare la mia macchina?”

Era la storia più improbabile che avessi mai sentito, ma l’uomo era stranamente persuasivo.

“La macchina la sposterà solo nel tempo e non nello spazio. La sistemeremo in un luogo aperto che, con assoluta certezza, sia rimasto immutato negli ultimi trent’anni. Non sarebbe divertente per lei trovarsi in casa di qualcuno e dovergli dare spiegazioni mirabolanti”.

Andai a trovare Blumenthal due sere dopo. Probabilmente mi avrebbe raccontato che si era trattato di uno scherzo e mi sarei un po’ seccato. Invece il parallelepipedo dorato con i cherubini sopra era al centro di un salotto arredato con gusto antico. Nella stanza aleggiava uno strano profumo, simile all’incenso. La faccenda cominciava a farsi seria.

“Egregio signore, propongo di dare subito il via all’esperimento. Questa è la macchina. La sposteremo insieme nel mio giardino, che è rimasto tale e quale negli ultimi trent’anni”. In effetti sembrava che le piante non fossero state tagliate da decenni. Più che un giardino somigliava a un bosco. Almeno nessuno ci avrebbe visto. Consultammo il calendario perpetuo e decidemmo per sabato 30 novembre 1974. Per quanto strano possa sembrare in quel momento prevalse la sensazione di curiosità: sarebbe stato bello rivedere il negozio pieno di gente vestita con eskimo e scarpe Clarks. E poi era il periodo del mio primo impianto stereo. Ricordavo ancora il primo vinile comprato dopo tante cassette, “Second Contribution” di Shawn Phillips. Forse l’avevo preso giusto quel giorno. Si decise per le cinque del pomeriggio, l’ora più bella, quella del massimo affollamento. D’un tratto ci rendemmo conto che le banconote di oggi sarebbero risultate sconosciute nel ‘74. Blumenthal sorrise: “I dollari, caro signore, sono rimasti immutati negli ultimi cinquant’anni o forse più. Sono disposto a regalargliene cento per il disturbo, diciamo così, che si sta prendendo. Ah, dimenticavo. Dovrà ritornare alla data odierna entro due ore. La macchina ha un dispositivo di autodistruzione regolato su 120 minuti. Questo nell’evenienza che finisca in cattive mani”.

Entrai nello scatolone senza capire bene cosa stava succedendo, forse era colpa del profumo d’incenso che aleggiava anche lì. L’interno sembrava quello di un’auto degli anni ‘30., Quando vidi il datario in plastica stile vecchio ufficio e la leva con il pomo color avorio pensai: “Splendido esempio di modernariato, piacerebbe giusto a Giancarlo”.

Il viaggio fu esattamente come descritto da Blumenthal. Nel continuo alternarsi di timore e curiosità, ora prevaleva la seconda. Uscii. Era una giornata fredda e cominciava a imbrunire. Il giardino, in disordine come trent'anni dopo, appariva molto più spoglio. Autunno inoltrato, come previsto. Mi chiesi cosa sarebbe successo se Blumenthal mi avesse visto dalla finestra. Guardai verso la casa, era illuminata ed ebbi l’impressione che ci fosse qualcuno dietro le tende. Meglio uscire in strada. C’era una 127 parcheggiata. Targa quadrata nera e numeri bianchi, GE 532447. Diamine, eravamo davvero nel 1974. Primo problema: sabato, banche chiuse. Per fortuna c’è il cambio della stazione. “Peccato sia meno conveniente”. Buffo come nell’eccezionalità continuino a persistere i pensieri ‘normali’.

Secondo problema: il ferroviere dello sportello cambi cominciò a guardare la mia carta d’identità in modo strano. Poi sollevò il telefono. Merda! La data di rilascio era il 2003. Se n’era accorto e di sicuro stava chiamando la polizia. 1974, inizio degli anni di piombo, meglio sparire. A questo punto bisognava ragionare velocemente. La memoria diceva che nella zona del porto c’era un cambiavalute. Non avrebbe fatto storie. Non ne fece, ma intanto era passata quasi un’ora. Trascorsero altri cinque minuti prima di riuscire a varcare la soglia del negozio. Restai a fissare per un po’ le copertine di “Relayer” degli Yes e “Quando Verrà Natale” di Venditti. Quelli non li avrei comprati di sicuro. A fianco però c’era “L.A, Turnaround” di Bert Jansch. E allora coraggio.

Come previsto c’era molta gente. Meglio così. Quando lo salutai, Giancarlo mi guardò in modo strano. Probabilmente gli sembrai il padre di quel ragazzetto che in negozio guardava sempre i dischi di folk inglese… E proprio verso lo scaffale del folk mi diressi. Solo lì ci si sarebbe potuta passare mezza giornata. E invece restavano tre quarti d’ora, meno i cinque minuti per andare dal negozio a casa di Blumenthal. Il cambio del denaro aveva fruttato più di centomila lire, all’incirca venticinque LP con i prezzi di allora. Nel giro di cinque minuti avevo già sottobraccio “No Roses” di Shirley Collins, il primo disco dei Comus, “Jack Orion” di Bert Jansch con la copertina originale. E poi “Five Leaves Left” gatefold di Nick Drake e due Ian Matthews prima stampa Vertigo, pure quelli apribili. Passai al rock. Nessuna traccia del secondo dei Caravan, già raro all’epoca, ma c’era “Waterloo Lily”. Agguantai il super-cult “Sinister Morning” di Denny Gerrard, destinato all’irreperibilità nel giro di pochi anni. Mancavano quindici minuti, ma mancavano ancora i cantautori americani, ovvero “The Eyes Of An Only Child” di Tom Jans, “For Everyman” di Jackson Browne nell’edizione con finestrella che oggi nessuno ricorda, il primo Roger McGuinn, “Merrimack County” di Tom Rush e “Coast To Coast Fever” di David Wiffen.

Diciotto e venti. Entro dieci minuti dovevo essere dentro la macchina di Blumenthal. Pagai in fretta mentre cominciava a prendermi un po’ di paura. Andò tutto bene, in realtà: cinque minuti per arrivare al giardino, uno per eseguire l’operazione di ritorno al presente.

La casa era buia, la porta che dava sul giardino sbarrata. Bussai sulle imposte senza ottenere risposta. Mi prese la paura, paura di essere rimasto irrimediabilmente nel 1974. Blumenthal mi aveva spiegato che la persona che io ero allora sarebbe ‘scomparsa’, senza rendersene conto, durante il tempo del viaggio. L’ora e il giorno del trasferimento erano stati scelti anche in base a questa considerazione. Il sabato pomeriggio io ero sempre nel negozio di dischi. Ora, se fossi rimasto bloccato in quell’epoca, sarebbe stata dura ritornare a casa e spiegare a mamma e papà un invecchiamento tanto rapido e precoce. Ma in strada era parcheggiata una station wagon inequivocabilmente inizio ventunesimo secolo. Mai un simile orrore a quattro ruote mi parve tanto bello.

Il ricordo di quel viaggio è sfumato in fretta e mi chiedo se non sia colpa dello strano incenso di Blumenthal il cui odore mi rimase a lungo nei vestiti. A proposito, non ho più rivisto quell’uomo. Sono ritornato due o tre volte davanti a casa sua ma le imposte erano sempre chiuse. Poi sul cancello del giardino è comparso il cartello “vendesi”. E così non potrò mai togliermi un dubbio che ogni tanto mi prende. Dentro al negozio, proprio mentre stavo pagando i dischi, avevo intravisto qualcuno che si stava avvicinando al banco tenendo in mano “Second Contribution” di Shawn Phillips. La statura era la mia e quel disco… No, non poteva essere vero, non ci poteva essere sdoppiamento, Blumenthal me l’aveva assicurato. Non avevo avuto il coraggio di guardare meglio. Eppure, uscendo mi era sembrato che Giancarlo mi avesse guardato in modo ancor più strano di prima e che poi avesse guardato la figura dietro me dicendogli: “Ciao A., ora che hai lo stereo finalmente cominci a comprarti i vinili…. (Antonio Vivaldi)

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