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Jazz Recensioni BRANFORD MARSALIS - In My Solitude: Live At Grace Cathedral
 

BRANFORD MARSALIS - In My Solitude: Live At Grace Cathedral BRANFORD MARSALIS - In My Solitude: Live At Grace Cathedral Hot

marsalisLive in perfetta solitudine questo di Branford Marsalis, come suggerisce lo stesso titolo ellingtoniano, tenuto presso la Grace Cathedral di San Francisco, la medesima chiesa in cui lo stesso Duke Ellington presentò nel lontano 1965 il suo primo concerto sacro (un vero e proprio omaggio al grande compositore afroamericano). Il celebre sassofonista (soprano, alto e tenore), fratello del più noto Wynton, e certo meno imputabile di conservatorismo o presunzione (tra le altre cose, anche a fianco dei Grateful Dead, come testimonia l'ultimo triplo live della formazione californiana "Wake Up To Find Out", da poco pubblicato, e risalente al marzo del 1990), pubblica una registrazione estremamente suggestiva, coinvolgente, all'interno della quale è prima di tutto il suono all'interno dello spazio ad essere protagonista. Il ricordo va immediatamente a Steve Lacy e a certe sue commoventi e solitarie "conversazioni", anche se la "rotonda" cifra espressiva di Marsalis ha storicamente poco a che vedere con le spigolose geometrie dell'adepto del Monaco, più invece legata (com'è) alle voci di una corale afroamericana (da una parte), alla rielaborazione del sound di New Orleans (dall'altra), e a molto altro ancora ovviamente (Coltrane, invece, è per fortuna "lontano": i sassofonisti postcoltraniani hanno davvero stancato). Ma in effetti Marsalis parte proprio da un brano di Lacy ("Who Needs It"), per intraprendere il suo poliedrico e colto viaggio sonoro, e proprio per meglio introdurre all'ampiezza di un discorso musicale, capace di abbracciare più generi e linguaggi, anche scomponendoli e ricomponendoli tra loro, e non solo associandoli come elementi di una stessa dissertazione musicale. Un viaggio in grado di spaziare dalla professorale riproposizione di uno standard come "Stardust" alla rilettura (al tenore) dell'adagio della "Sonata in A Minor For Oboe Wq. 132" di Karl Philipp Emanuel Bach; da libere improvvisazioni (quattro per la verità: si ascolti l'estatica numero tre, a un certo punto sospesa tra progressioni barocche e scale pentatoniche, perché tutto si tiene; o la numero due, distinta da quel breve, elegante e tempestivo gioco con un impercettibile clacson oppure una lontana sirena; o ancora la numero quattro, che si chiude giocosa con la stessa sequenza di intervalli di "Incontri ravvicinati del terzo tipo") ad alcune composizioni originali come "The Moment I Recall Your Face" (dal profilo melodico garbarekiano, ma buona parte dell'intera registrazione può in realtà richiamare le peregrinazioni nella musica antica del sassofonista norvegese) o "Blues For One", a rievocare da lontano (perché no!?) la scatenata voce di un Sidney Bechet, ma quasi come un Paul Gonsalves; fino alle spettacolari, rabbrividenti (in senso buono) e raffinate multifonie al sax alto (da Albert Mangelsdorf del sassofono), che caratterizzano l'esecuzione di "MAI Op. 7", brano del compositore contemporaneo giapponese Ryo Noda, scritto per il sax, ma con l'intento di rifarsi alle sonorità dello shakuhachi, flauto in bamboo della tradizione giapponese. Accademia afroamericana (positivamente parlando), tra sacro e profano: una delle migliori pubblicazioni di questo 2014. (Marco Maiocco)

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