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Jazz Recensioni GEORGE HASLAM QUARTET – Papermoon (Slam Records 2008)
 

GEORGE HASLAM QUARTET – Papermoon (Slam Records 2008) Hot

Image L’ultima volta, lo abbiamo lasciato in compagnia del sax soprano di Lol Coxhill ad improvvisare in libertà nell’ottimo recente “From Whichford Hill” per la serie Live at The Holywell Music Room (Slam Records, 2008): note stridule, suoni parassiti, nessun punto di riferimento ritmico e armonico. Oggi, invece, ritroviamo il sax-baritonista inglese George Haslam, sodale compagno del nostro Stefano Pastor, alla guida di un brillante quartetto impegnato nell’esecuzione di alcuni standards più o meno noti. Si va da “It’s Only A Paper Moon” e “Out Of This World” del grande Harold Harlen, il famoso compositore di “Over The Rainbow” e tra i maestri del mitico gruppo di autori newyorkese del Tin Pan Alley, a What’s New” del contrabbassista dixieland Bob Haggart, fino a un’interessante versione coltraniana di “St James Infirmary”, traditional portato al successo dalla poderosa cornetta di Louis Armstrong. Se bisogno c’era, ecco un buon modo per zittire tutti i possibili detrattori di un musicista come Haslam, che, nonostante la splendida preparazione, è sempre a rischio di incomprensione, data la sua appartenenza al mondo delle avanguardie e della sperimentazione in campo jazzistico. Un po’ come quando Lester Bowie, leader dell’art Ensemble Of Chicago, si metteva a suonare davvero il blues (forse come nessuno mai), senza uscire (per una volta) dalle sue griglie armoniche e dalle sue regole: quasi a dire che prima di dimenticarle le cose bisogna averle assimilate in abbondanza.

Papermoon è un album rilassato e ben suonato, che ricorda da vicino le atmosfere del jazz anni ’50 precedente la cosiddetta svolta modale, pensiamo a lavori come “Jazz in ¾ Time” di Max Roach o al sound del quartetto di Gerry Mulligan, quello privo del supporto armonico del pianoforte, con Chet Baker alla tromba. E in effetti, Haslam sembra un Gerry Mulligan post litteram, forse più smaliziato e senz’altro più gioioso, e il bravo trombettista Steve Waterman una moderna sintesi tra Kenny Dorham e Chet Baker, con tutto il dovuto rispetto per il secondo. A colpire, infatti, è la benvenuta (in questo caso) americanità del suono complessivo, a discapito di quell’accattivante “british tinge”, che solitamente caratterizza i dischi di George Haslam. Al contrabbasso c’è il solito Steve Kershaw, una sicurezza, mentre è Robin Jones, questa volta, a sedere con merito dietro piatti e tamburi. Gustoso. (Marco Maiocco)

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