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Jazz Recensioni DAVID MURRAY & BLACK SAINT QUARTET - Sacred Ground (Justin Time 2007)
 

DAVID MURRAY & BLACK SAINT QUARTET - Sacred Ground (Justin Time 2007) Hot

Image Ogni album di David Murray ha la speciale capacità di apparire sempre nuovo e indispensabile: la classica ventata d’aria fresca, un altro mondo da scoprire ed esplorare. E pensare che il nostro David appare ormai in circa 220 incisioni, come ben spiega nelle note di copertina Ishmael Reed, il celebre autore di Mumbo Jumbo: romanzo simbolo per l’intera cultura afro-americana. Murray è, insieme a Fred Anderson, tra gli ultimi eredi rimasti di sassofonisti come John Coltrane, Albert Ayler, Archie Shepp, Roland Kirk, vale a dire quella generazione di musicisti che, a partire dalla metà degli anni 60, raggiunse l’ultima evoluzione possibile (oppure no) del jazz di puro stampo afro-americano. Talenti che hanno saputo produrre una musica in grado di riflettere su se stessa, cogliere le contraddizioni del presente e guardare al futuro: caratteristiche paradigmatiche del fare jazz. E proprio la costante dialettica tra radici e sviluppo può mantenere vivo e attuale un fenomeno culturale, allontanandolo dai pericoli di un vuoto conservatorismo.

Dialettica che Murray conosce e sa interpretare alla perfezione: il suo è un suono intriso di storia, eppure personalissimo e quindi sempre in sintonia con i tempi che corrono. In questo Sacred Ground sono ancora una volta in evidenza le sue straordinarie abilità tecniche ed espressive capaci di mozzare letteralmente il fiato: chiunque non conosca il virtuosismo e la visceralità di David ha il dovere di colmare la lacuna, anche a partire da questo disco. Un lavoro tutto giocato su atmosfere coltraniane costantemente aggirate, manipolate, scomposte e rimontate, con il solito abbondante utilizzo dei sovracuti, di cui Murray ha lo sbalorditivo controllo assoluto. Fa bella mostra di sé il poco conosciuto Lafayette Gilchrist, ottimo pianista dall’incedere classico e dalle soluzioni brillanti, e giganteggia, nella title track e nel poderoso blues finale, la figura di Cassandra Wilson, forse la più grande vocalist afro-americana da Billie Holiday in poi. La sua voce di vetro e di velluto, così ricca di sensualità e matura consapevolezza, dovrebbe far morire di vergogna tutte le Diana Krall di questo mondo.  (Marco Maiocco)

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