Will Oldham giocava a nascondersi, dietro foto sfuocate, sotto nomi diversi. “Place Brothers” è uno di questi, Palace Music, Bonnie “Prince” Billy e Palace sono gli altri. Le canzoni che uscivano dal mondo sbilenco di Will erano piccole rivelazioni: insieme intime e universali, scarne e crude nei suoni come complesse e colte nelle parole. Un’unica sfumatura di mille colori che attaccava la tradizione senza pudori. La sposava, quelle chitarre e quelle melodie, per inventarla di nuovo. “Palace Brothers” è un disco piccolo, poco meno di mezz’ora, fatto di nulla o quasi, lo spettro di una chitarra e l’ombra di una voce, eppure è immenso per l’influenza che ha avuto: sconfinato per le emozioni che sa ancora regalare. È un disco lento, potrebbe anche scorrere senza essere notato se la conversazione che lo circonda si riscalda, ma con le sue braccia magre è stato capace di costruire un modo nuovo di leggere il passato. Ha saputo raccontare come la musica tradizionale americana potesse cantare anche questi tempi nuovi e non solo evocare la frontiera conquistata oramai troppi anni fa. Ha saputo ricominciare. Ancora. (Marco Sideri)
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PALACE BROTHERS - Palace Brothers (Domino 1994)
PALACE BROTHERS - Palace Brothers (Domino 1994) Hot
C’era una volta l’ “alternative country”, esperimento tra i più riusciti di modernizzazione di un genere musicale alle soglie della pensione. All’inizio degli anni ‘90 il country negli Stati Uniti aveva tutte le caratteristiche di un’istituzione morente: conservatore, ordinato, nazionalista e banale. Aveva esaurito la spinta vitale regalata da personaggi “fuori dagli schemi” come Johnny Cash o Gram Parsons. Ma sotto le ceneri del tempo, bruciava ancora una scintilla; e se gruppi come Uncle Tupelo e Souled American ne riprendevano splendidamente i modi sporcandoli di rock, Will Oldham ipotizzava di nuovo con la sua musica dimessa e scura la figura del cantautore, solitario e magico.
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