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“Far from me” mostra invece come si possa dire tutto sulla fine di una relazione semplicemente identificandone il momento di non ritorno: “Lei mi chiese di cambiare stazione/ diceva che quella canzone la faceva stare male/ ma non ce l’aveva con la musica/ era me che cercava d’incolpare”. La bellezza del disco poggia su questa attenta oscillazione fra ironia e malinconia, che è poi il punto in cui l’allievo Prine ( realista poetico) si stacca dal maestro Dylan (visionario cinico). Tanta cura metodologica servirebbe a poco, se le melodie fossero deboli. Qui sono sempre ammirevoli, oltrechè ben rivestite da stringati arrangiamenti “sudisti” ( l’album è registrato a Memphis). D’altronde basta il piano elettrico per aggiungere un tocco di desolazione in più a “Sam Stone” (una delle prime testimonianze sul difficile reinserimento sociale dei reduci dal Vietnam) o un violino rurale per rendere irrimediabile il senso di perdita comunicato da “Paradise” (uno scempio ambientale narrato fra rabbia e nostalgia). Un lavoro così perfetto da rendere impossibile ogni replica, anche se Prine saprà mantenersi sempre su livelli artistici almeno dignitosi. (Antonio Vivaldi)