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Siamo di fronte infatti, più che a un gruppo rock, a un paio di menestrelli del ventesimo secolo intenti a cantare, ma soprattutto a raccontare, le proprie esperienze di vita, senza fronzoli e senza mezzi termini. La voce narrante, in prima persona, è quella di Aidan Moffat, simbolo di una Glasgow marginale e problematica, contrapposta e complementare a quella di certo più solare e diretta dei coetanei Belle and Sebastian. Pur suddiviso in tredici classiche canzoni, “Philophobia” rimane un’opera intera, senza soluzione di continuità, combattuta tra momenti stagnanti di sconforto e stasi, e impeti rabbiosi segnati dalla consapevolezza dell’inadeguatezza del vivere quotidiano (“The Night Before the Funeral” su tutte marchia indelebilmente questo sentimento nell’anima). E come in copertina, l’uomo è messo a nudo di fronte al suo essere, alle sue debolezze e ad una sessualità amara e violenta. Il ritratto che ne esce è grezzo e sgraziato, schizzato perfettamente dalla voce rotta da mille sigarette e da troppo whisky di Moffat. (Giovanni Besio)