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In realtà il disco è di per sé tremendamente bello, dove tremendamente va inteso alla lettera per alcuni brani almeno, Nomadic Revery, Madeleine-Mary e Death To Everyone, tutte piuttosto destabilizzanti nella loro desolazione (e l’ultima quasi inascoltabile per ogni anima fragile) e al tempo stesso rese singolarmente attraenti da una limpidezza melodica che sembra poco legarsi a un personaggio all’apparenza tanto scombinato. Siamo qui in territori non lontani da quelli frequentati da Nick Cave e da David Eugene Edwards di 16 Horsepower, ma se il primo ha saputo spettacolizzare la propria luciferinità e il secondo ha deciso d’ingaggiare una personale battaglia sonica con il male in nome di un divino piuttosto terrificante, Oldham sembra voler dialogare con il proprio lato oscuro piuttosto che stranarlo o sfidarlo. Forse per questo gli riesce di essere, oltreché che cupo, anche delicato in Knocturne e in A Minor Place (che anticipa il suo avvicinamento al roots-rock degli anni successivi), sentimentale in Raining In Darling e onnicomprensivo in quello straordinario dialogo fra bene e male che si svolge lungo i versi di I See A Darkness (la canzone). E la versione originale non è da meno di quella dell’Uomo in Nero. (Antonio Vivaldi)
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