Musicalmente parlando, gli anni ’80 si portano dietro il pregiudizio di essere stati un decennio da dimenticare: invece “non sono stati solo pop sintetico (Duran Duran, Spandau Ballet) o rock caritatevole da stadio (U2, Simple Minds)” come ha scritto correttamente Antonio Vivaldi su queste pagine recensendo un disco dei Gun Club dello stesso anno. E volendo chiosare, anche i Simple Minds non sono stati solo rock caritatevole: riascoltando a giusto 25 anni di distanza “New Gold Dream”, il miglior disco del gruppo di Glasgow, è vero che vi troviamo tutti i difetti di quel post-punk elettronico che mischiato a David Bowie (da una cui canzone, "Jean Genie", il gruppo dichiara di prendere il nome), virò ben presto verso una dance buona per le disco-yuppie dell’epoca; ma anche un pugno di canzoni di grande livello, che riflettono perfettamente lo spirito del tempo, aggiungendovi però una tonalità oscura e inquietante, malinconica e rabbiosa.
Il disco è strutturato sul dialogo ininterrotto tra il basso di Derek Forbes e la batteria (alla quale si alternano vari sessionmen), sul quale si innestano la chitarra di Charles Burchill e le tastiere di Michael MacNeil, tutti al servizio della voce epica di Jim Kerr (tranne nella curiosa e strumentale “Somebody Up There Likes You”). Almeno quattro le canzoni indimenticabili: “Someone Somewhere In Summertime”, “Promised You A Miracle”, “Glittering Prize” – uscite come singoli – e “New Gold Dream (81-82-83-84)”, un manifesto per gli anni dorati a venire, che si sarebbero rivelati nient’altro che anni di plastica. Citazione d’obbligo per "Hunter And The Hunted", con la bizzarra partecipazione di Herbie Hancock per un solo niente più che giudizioso e finale con la cupa "King Is White And In The Crowd", tra Kraftwerk e Japan. (Danilo Di Termini)
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