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Le parole giocano con una poesia essenziale e asciutta; la voce è obliqua, isterica, tesa; gli arrangiamenti e i suoni alternano spigoli appuntiti e paludi immobili. Non c’è nulla di morbido o melenso nelle canzoni del disco, ma l’atmosfera è avvolgente e intensa. Pianoforte e archi danno occasionalmente manforte alla chitarra creando panorami circolari di melodia cristallina; la voce li abita, a metà tra dialogo e canto, ora accelerando ora perdendosi in una sorta di stasi assoluta. Quelli che considerano l’innovazione sonora una chiave di lettura definitiva per le vicende della musica preferiranno certamente a “The Doctor…” altri dischi targati Smog; le tensioni di “Wild Love” e “Julius Caesar” (rispettivamente 1995 e 1993) in testa. Chi invece ricerca la quiete della melodia o il canovaccio semplice del rock si rivolgerà a prove più recenti come “Red Apple Falls” o “Dongs Of Sevotion”. Ogni posizione è legittima; tuttavia è in queste dieci canzoni che ogni stimolo presente nella penna di Bill si ritaglia uno spazio: il minimalismo, la canzone d’autore, la dissonanza, la melodia, la tradizione, l’avanguardia. Anche solo per questo, “The Doctor…” merita un posto d’onore nelle stanze secolari della canzone (d’autore o meno) statunitense. (Marco Sideri)