Evidentemente non era, semplicemente, il momento giusto. Perché un disco come “Fuzzy”, con la sua visione personale, distorta, melodica e struggente della tradizione americana avrebbe ben potuto essere salutato oggi come un capolavoro, uno di quei punti fermi con cui fare i conti nei giorni a venire. Altro che country alternativo. Nelle pieghe delle canzoni si trova veramente una visione viva e attuale di quello che fu: del folk e delle antiche città fantasma (moderne città dormitorio), delle fughe eroiche e dei fuorilegge, dell’amore e del peccato. I Grant Lee Buffalo (Grant Lee Phillips voce e chitarra; Paul Kimble basso e piano; Joey Peters batteria) semplicemente scrivevano canzoni eccellenti, e sapevano come dare loro vita. Melodie impeccabili (Jupiter & Teardrop, Fuzzy, The Shining Hour, The Hook) fatte saltare in aria dalla distorsione esplosiva della chitarra acustica, dal basso figlio del punk, dal battere quasi tribale, o dolcissimo e lieve, dei tamburi.
La voce di Grant Lee è la prima attrice nel teatro di suono: capace di falsetto spietato come di narrazione profonda, attraverso di lei le storie prendono vita come in uno di quei vecchi road movie, prevedibili eppure bellissimi, dove semplicemente si fugge, fino ai titoli di coda. L’America in carne e ossa non era pronta per l’America dei Grant Lee Buffalo, allora. Si stava ubriacando di grunge e fece poco caso a “Fuzzy”, giusto il solito pungo di inutili recensioni entusiastiche. Per questo, dopo altri tre album sul livello (il successivo “Mighty Joe Moon” in particolare), le strade dei tre si separarono. Ma le canzoni, quelle restano, e ancora oggi suonano uniche, come allora. (Marco Sideri)
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