La notorietà planetaria di Ornette Coleman è indissolubilmente legata a “Free jazz”, il disco inciso nel dicembre del 1960 insieme a Don Cherry, Freddie Hubbard, Eric Dolphy, Charlie Haden, Scott LaFaro, Ed Blackwell, Billy Higgins, e da sempre considerato il manifesto del radicalismo musicale (anche per la copertina che riproduceva un dipinto astratto di Jackson Pollock). Da quella fama il sassofonista nato a Forth Worth il 9 marzo del 1930 non è mai riuscito a separarsi, tanto che il suo nome è spesso considerato sinonimo di jazz difficile se non addirittura inascoltabile. In realtà Coleman è ben altro che un semplice musicista free: elegantissimo compositore e eccezionale strumentista, ha sviluppato nel corso degli anni una coerente e personale carriera che lo ha reso una delle personalità più significative della storia del jazz. Per cominciare a cambiare opinione sulla sua osticità consigliamo il secondo e ultimo disco per la Contemporary, inciso all’inizio del 1959 insieme a Don Cherry (tromba), Red Mitchell o Percy Heath (basso) e il monumentale Shelly Manne (batteria).
Incentrato tutto sull’interplay fra il sax alto di Coleman e la cornetta di Cherry (gli unisoni con cui espongono i temi sono sempre mozzafiato), “Tomorrow is the question!” regala almeno tre temi memorabili (quello omonimo, "Rejoicing" e “Turnaround”) e un’atmosfera assolutamente unica, caratterizzata dalla tendenza alla libertà armonica dei due fiati cui si contrappone il pulsare costante, ma fantasioso della sezione ritmica. Provare per ricredersi. (Danilo Di Termini)