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LA STORIA IN PIAZZA - Jazzcombat LA STORIA IN PIAZZA - Jazzcombat Hot

LA STORIA IN PIAZZA - Jazzcombat

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LA STORIA IN PIAZZA
Anno
Casa discografica
LA STORIA IN PIAZZA
JAZZCOMBAT
Canzoni del tempo di guerra
Genova - Palazzo Ducale
Salone del Maggior Consiglio
17 aprile 2011

Nel suo ultimo illuminante e argomentato saggio (“Italia sperduta”, Donzelli, 2011), il sociologo Carlo Donolo illustra con efficacia come la crisi italiana sia prima di tutto la fotografia di una regressione cognitiva, culturale, antropologica, in atto da tempo nel nostro paese. Difficile pensarla diversamente, anche se poi, come fa lo stesso Donolo e come ha scritto lo storico Guido Crainz in molti dei suoi libri, il discorso dovrebbe spostarsi almeno in parte sul fatto che esiste una porzione d’Italia che in realtà non si è mai formata, perché passata troppo in fretta da una condizione di analfabetismo contadino (con tutto il rispetto per quel mondo, i suoi valori e le sue tribolazioni) ad un benessere generalizzato, frutto di una quanto mai repentina e forse irresponsabile industrializzazione. Fatto sta che negli ultimi vent’anni, arrotondando molto per difetto, si è assistito ad un progressivo degrado del sistema Italia nel suo complesso e ad uno sfarinamento di quello che sembrava un acquisito e vitale tessuto sociale.

Per fortuna esistono ancora manifestazioni come “La storia in piazza”, rassegna dedicata alla storia, organizzata a Palazzo Ducale di Genova dalla Fondazione per La Cultura, che provano meritoriamente e non senza difficoltà a colmare questo pesante deficit, ormai diventato strutturale, e certo più ingombrante di quello che indica il rapporto tra prodotto interno lordo e debito pubblico. Perché solo con più partecipazione, più saperi, più competenze, più conoscenze diffuse, la nostra democrazia può evolvere e prosperare, altrimenti si trasformerà in qualcosa d’altro, di pre-politico e pre-dialettico, come probabilmente già sta avvenendo.

Giunta alla seconda edizione, la tre giorni storica genovese (14-17 aprile 2011), aperta gratuitamente alla cittadinanza, ha avuto per tema “L’invenzione della guerra”, argomento purtroppo sempre attuale in un’epoca di grandi rivolgimenti, cambiamenti e ipocrisie come quella attuale. La pax augustea che la caduta del muro di Berlino avrebbe dovuto regalare e garantire è certo molto lontana, e non potrebbe essere diversamente, visto il perdurare di ingiustizia e sopraffazione nei rapporti asimmetrici tra un mondo ricco e opulento ed una preponderante parte di pianeta sempre più diseredata e abbandonata.

Nel corso delle tre giornate, a disquisire sull’impegnativo tema si sono alternati, dietro le varie “cattedre” allestite per l’occasione nelle diverse sale dell’antico Palazzo del Doge (e non solo), storici, filosofi, sociologi, intellettuali, studiosi, giornalisti, di grande valore e anche vaglia internazionale, tra i quali Donald Sassoon, Tzvetan Todorov, Saskia Sassen, Salvatore Veca, Giovanni De Luna, Angelo Del Boca, Enzo Bianchi, solo per citare qualche nome. All’insegna del motto che solo a partire da una conoscenza profonda e consapevole di quel che ci ha preceduto, anche nel passato più recente, è possibile immaginare una sostenibile via per il futuro.

La suggestiva manifestazione, che per brevi cenni abbiamo cercato di presentare, si è, infine, conclusa con “JazzCombat”, spettacolo di teatro e canzone, ideato e scritto dal critico musicale Michele Mannucci, andato in scena in un gremito Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale l’ultima sera, il 17 di aprile. Perché, ovviamente, è possibile e necessario parlare di storia e cultura anche attraverso la musica e le arti. Sembra una tautologia, ma di questi tempi è meglio specificare, ripetersi e precisare. Come nel caso di “Entarteke Musik” (vedi nel sito), Mannucci ha di nuovo costruito un intelligente percorso teatrale, incentrato questa volta sulla tragedia della guerra e sulle canzoni al tempo della guerra, quelle di tipo nostalgico, consolatorio, a volte nichilista, pacifista, e soprattutto quelle apertamente contro la dimensione bellica. Proprio a queste ultime, infatti, è stata riservata la maggiore attenzione, perché la guerra è sempre ed esclusivamente una feroce ed inutile mattanza.

A condurre la serata la brava e coinvolgente Elisabetta Pozzi, attrice genovese di talento dalle notevoli capacità affabulatorie (pregevoli, tra l’altro, le sua letture di “Veglia”, celebre poesia di Giuseppe Ungaretti del 1915, drammatico ritratto della vita in trincea, e di “Un aviatore irlandese prevede la sua morte”, componimento fatale di William Butler Yeats sulla vita come “spreco di fiato”), che ha letto con partecipazione la densa impalcatura testuale di Mannucci, ricca per altro di colte inserzioni autoriali, filo conduttore e tratto d’unione tematico tra una coppia di canzoni e l’altra. Tutte interpretate con gusto ed eleganza dalla vocalist genovese Simona Bondanza alla guida di un valido quintetto jazz, composto dal preparato Alessandro Collina al pianoforte, Marc Peillon al contrabbasso, mai scontato nei suoi interventi da solista, Rodolfo Cervetto alla batteria, sempre più capace di fornire al suo drumming qualità drammaturgiche, e Fabrizio Bosso alla tromba, in veste di ospite speciale.

Sono così passati in rassegna brani come “Where Have All The Flowers Gone” e “Blowin’ In The Wind” (a cui i cinque hanno dato una sorta di anima digitale pur con strumenti acustici, suonandola un po’ come l’avrebbe potuta eseguire Pat Metheny ai tempi di “Travels”), celebri canti del grande menestrello Pete Seeger, emblemi della protesta contro la guerra in Vietnam; “Le déserteur” di Boris Vian, vero e proprio manifesto del pacifismo, che in Italia Luigi Tenco portò al successo; “The Battle Hymn of the Republic”, popolare canzone patriottica americana, costruita sulla musica della più famosa “John Brown’s Body” del 1853, e diffusasi a macchia d’olio durante la guerra civile americana; “L’inno dei Bambini” di Bertold Brecht e Hanns Eisler, antemico e lungimirante canto che fu l’inno della Repubblica Democratica Tedesca fino al 1990; “Katiuscia” o “Fischia il vento”, forse il canto per eccellenza della nostra resistenza contro il nazi-fascismo, derivato da una nenia di provenienza russa, al cui interno il quintetto è riuscito ad inserire un infuocato blues in stile hard-bop; “Los cuatro generales”, canzone popolare spagnola del XIX secolo, in origine “Los cuatro muleros”, che fu il poeta Garcia Lorca a riportare alla luce, innestandovi un nuovo testo adatto alle tumultuose circostanze della guerra civile spagnola, che divenne uno dei simboli della resistenza repubblicana contro la reazionaria sollevazione militare in quel tragico 1936 (nel jazz è stato, poi, Charlie Haden a ridarle vita, riformulandola con la sua Liberation Music Orchestra in un celebre disco del 1969); ed altri ancora, tra cui l’immancabile “Lili Marleen”, bis della serata, la cui commovente melodia, portata al successo da Marlene Dietrich, durante la seconda guerra mondiale accomunò nell’ascolto i soldati degli eserciti contrapposti.

In sede di finale commento, uno spettacolo ben preparato e realizzato, nel quale la Bondanza ha dimostrato nuovamente di essere una cantante di talento, dalla voce soave e però incidente, sospesa tra il jazz e il popular, con ottime doti da interprete. Una performance, la sua, puntuale, rigorosa, sempre funzionale al testo, priva di virtuosismi e abbellimenti fuori posto. Da notare come canti indifferentemente in italiano, inglese, francese, e soprattutto tedesco, con molta naturalezza e senza perdere in forza comunicativa e credibilità. Il gruppo l’ha accompagnata egregiamente, e a prescindere dalle attese sferzate pirotecniche di Fabrizio Bosso, che comunque si è confermato ancora una volta dal punto di vista tecnico come forse il miglior trombettista italiano. In sintesi, un’ulteriore, utile e necessaria opera di divulgazione, dal significativo afflato umanistico. Riappacificante. (Marco Maiocco)

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