Musica italiana
A costo di apparire come improbabili dispensatori di massime zen, si potrebbe metterla così: ogni tradizione degna di questo nome è costruita sull’invenzione. E ogni invenzione creativa presuppone un fondo di persistenza che è tradizione. L’una comprende l’altra: viviamo nel tempo, e nel tempo fruttiamo. Diceva Antonio Tabucchi che “di tutto resta un poco, ed è con quel poco, che poi è il nostro tutto, che dobbiamo fare i conti”. Franco Minelli con la sua strepitosa orchestra Bailam, perfetto organismo musicale d’attacco radicato nel folk che già appassionò il Mauro Pagani di Crêuza de mä, ma con un piglio da rocker sui palchi che avvicina la Bailam ai Pogues che furono, di tradizione e invenzione a braccetto è un conoscitore raffinato. In Trallalero Levantìn s’immagina un viaggio nel tempo tra Smirne, Salonicco e Istanbul in quell’epoca ottomana fascinosa, spazzata via dagli atroci sovranismi successivi, che potremmo situare tra il dodicesimo secolo e gli inizi del Novecento. Quando si incrociavano le lingue dei genovesi, dei venazioni, degli ebrei sefarditi scappati dalla Spagna, dei cristiani dell’Anatolia, degli inglesi, dei francesi. Un crogiolo saporito di pronunce e stili di vita incrociati. Si qui la “tradizione”. L’invenzione è di raccontare storie profumate e palpitanti su quel periodo e quei luoghi usando i tempi dispari dei Balcani e del Medioriente e il genovese affidato a voci che replicano gli assetti delle squadre di trallalero. Funziona? Perfettamente. L’invenzione della tradizione è la tradizione dell’invenzione. (Guido Festinese)
Cosa faceva Fabrizio De André quando si decideva a scrivere, nella sua alessandrina pigrizia nutrita di molte buone letture? Incrementava le letture stesse. Lui procedeva in un mondo in cui non c’era un “clic” sulla tastiera per avere in tempo reale qualsiasi informazione. Bisognava guadagnarsele, appuntarle, ragionarci sopra, incrociare le fonti come facevano i vecchi cronisti da battaglia. alla fine forse non ne veniva fuori “la” verità, ma, almeno, una verità poetica che spesso dura ed ha più consistenza delle miriadi di “post- verità” che tracimano dalla palude rancorosa dei social media, dove tutto equivale a tutto, e se c’è da insultare qualcuno tanto meglio. Le canzoni di Faber durano, e dureranno. Un post livido che attacca una capitana di trent’anni che raccoglie esseri umani “a prescindere” e si vede accusata di salvataggio di persone umiliate e offese peraltro, per dirla con Erri De Luca, “colpevoli di viaggio” no. Il preambolo per dire che il genovese Paolo Gerbella è uno che lavora all'antica, con le canzoni. Prima di scrivere una fase si documenta, ci ragiona, incrocia le fonti. Le fonti per questo disco ci direbbero, qui, che nel dicembre del 1900 il marchese genovese Garroni, prefetto, sciolse d’ufficio la Camera del Lavoro dove chi nulla aveva se non la forza per lavorare delle proprie braccia pretendeva di aver rappresentanza e dignità. In una città che contava un quarto dei già pochi abitanti d’oggi venticinquemila portuali (e non solo) scesero in sciopero contro il marchese, e bloccarono “La Regina”, come con un nomignolo assai ironico chi si spaccava la schiena a “camallare” chiamava la merce. Vinsero i venticinquemila, nonostante la ferocia rancorosa dei tre giornali di allora, tutti schierati col prefetto. Camera del lavoro riaperta, e rappresentanti eletti dalla gente che lavorava, non imposti dai “scignui”. Gerbella ha costruito su questa storia dimenticata ma necessari a un affresco di note e di parole che danzano leggere su un argomento spesso, con l’aiuto di Rossano Villa. La chiave musicale è un folk rock che a volte trova il piglio barricadiero, a volte è ballata deandreiana di puro incanto. Con amici musicisti eccellenti: fra i quali, segnaliamo, Laura Parodi gran voce dal folk ligure. Un disco necessario: De André dalle nuvole annuisce e si accende un’altra sigaretta. (Guido Festinese)
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