Non sono gli anni, sono i chilometri, dicevano i Blues Brothers. E chilometri ne hanno macinati molti, i Rusties, tra filacce di nebbia lombarda, notti di suono strappate agli altri modi per che si usano per gli sopravvivere se ti capita di nascere in Italia e non a Memphis, e poi magari il giorno dopo hai gli occhi pesti, ma che serata. I Rusties guidati Marco Grompi macinano vita e chilometri da vent'anni. In origine portavano in giro le canzoni del vecchio bisonte imbizzarrito Neil Young, con classe e rigore, ma non sterile filologia. Poi è arrivato anche uno spettacolo teatrale sulle canzoni degli anni più bui e assieme più luminosi del rocker canadese, poi la voglia di misurarsi con accordi e parole d'autore. E ora il doppio salto mortale, e senza rete: perché scrivere, cantare e suonare (bene) rock preciso e poderoso di pura marca Americana in italiano non è appannaggio di quasi nessuno, qui: senz'altro non dei soliti noti da stadi pieni e testa vuota. Meglio cercare nel giro di chi è indipendente davvero: vedi alla voce Bonfanti, vedi alla voce Rosa Tatuata, vedi alla voce “Ruggine”. I Rusties evitano le trappole delle parole tronche che mancano dando un colpo di cacciavite lì e un altro di plettro là alle frasi, fino a trovare la cadenza e la rima perfetta, ti sbattono addosso un suono che sembra un concentrato della E Stret Band, degli Heartbreakers, degli Allman Brothers più ruggenti e convinti. Garantendosi anche qualche deriva musicale più “eretica”, da jam band cosciente che sa tenere gli stumenti in mano. In cinque suonano come se avessero accordato cuore e cervello su medesimi battiti e pensieri. E i testi? Uno sguardo amaro, spietato, sprezzante su un presente povero e sazio di nulla, spogliato di spessore, con brutte ulcere sulla memoria. Personale e collettiva. Un bel paracadute contro la miseria frequente del “rock in italiano”. (Guido Festinese)